Sergio Migliorini, medico chirurgo, specialista in medicina dello sport, medicina fisica e riabilitazione, ha vissuto dall’interno la diffusione in Italia del triathlon. Un medico famosissimo nel mondo degli sport di endurance, è responsabile medico della nazionale di triathlon e da alcuni mesi è membro della Commissione Interfederale della Federazione Internazionale di Medicina dello Sport.
“Sta al triathlon come la mela morsicata sta ad Apple”. Così Mondo Triathlon ha definito Sergio Migliorini, medico chirurgo di grande esperienza, specialista in medicina dello sport, medicina fisica e riabilitazione, che ha visto nascere e diffondersi in Italia questa disciplina olimpica che mette insieme, in un’unica gara, nuoto, bicicletta e corsa. Migliorini l’ha vissuta e studiata dall’interno, facendola crescere sotto il profilo medico. La sua area clinica e di ricerca, infatti, è soprattutto quella legata alla traumatologia dello sport, alla prevenzione e al trattamento degli infortuni da sovraccarico negli sport di endurance. Il dottore, che fa parte dello staff di Physioclinic, non a caso, è famosissimo anche nel mondo del running, oltre ad essere Presidente della Commissione Medica FITri, Presidente del Comitato Medico e Anti-Doping di World Triathlon e membro della Commissione Interfederale della Federazione internazionale di Medicina dello Sport.
Dottore, qual è il segreto del successo del triathlon e lei come si è appassionato a questo sport relativamente giovane?
Il triathlon mescola la corsa su strada con altre due discipline di endurance, il nuoto e il ciclismo, quindi, anche dal punto di vista medico riabilitativo, è un’ottima occasione per bilanciare le nostre articolazioni e i nostri muscoli con attività complementari, dopo un infortunio. Quando questa nuova disciplina arrivò in Italia dagli Stati Uniti, eravamo agli inizi degli anni Ottanta, la vivemmo come un’avventura, con gare che avevano fama di essere estreme, organizzate in luoghi affascinanti. Per noi podisti aggiungere il nuoto era una grande novità, ma era tutto entusiasmante e ci siamo buttati dentro a capofitto. Il triathlon, con cui abbiamo girato l’Italia e il mondo, è stata un’esperienza di vita oltre che sportiva.
Una disciplina nata nel 1977, uno sport giovane, quindi, ma cresciuto in fretta. Parallelamente all’aumento dei praticanti sono maturate anche metodiche specifiche nell’allenamento e nella medicina sportiva?
Il triathlon è partito mutuando situazioni ed esperienze delle tre discipline che lo compongono, ma ha sviluppato metodi di allenamento propri e ha un suo approccio particolare dal punto di vista medico scientifico. Una volta il triatleta era solitamente un corridore che decideva di fare il salto nella nuova disciplina ma oggi, invece, si nasce triatleti e ci sono metodiche specifiche, con carichi di lavoro, tecniche ed esercizi che servono ad affrontare al meglio la gara e le transizioni, ovvero le azioni compiute per passare dal nuoto al ciclismo e dal ciclismo alla corsa, realizzando prestazioni elevatissime. Inoltre, come detto, c’è un approccio medico specifico nel curare l’atleta, sia dal punto della fisiologia che della traumatologia, che è quella di cui mi occupo di più.
Nel suo libro “Triathlon Medicine” ci sono tante esperienze che lei ha fatto sul campo, ma c’è anche il meglio di quello che la ricerca scientifica ha elaborato su questo sport, grazie ai contributi degli specialisti di oltre venti università. Si tratta di un libro fondamentale per gli addetti ai lavori…
Il volume pubblicato da Springer è stato per me una straordinaria opportunità per affrontare tanti temi di medicina applicata al triathlon, insieme ai colleghi con i quali ho lavorato anche nelle altre federazioni, come quella dell’atletica, del nuoto e del ciclismo. Esperti con cui ho condiviso anche gli studi che abbiamo prodotto in ambito di Comitato Olimpico e di CIO. I triatleti sperimentano una serie di condizioni ambientali ed esigenze fisiologiche che devono essere prese in considerazione, per questo il libro affronta in dettaglio i temi degli adattamenti cardiovascolari, le lesioni da sovraccarico, la sindrome da sovrallenamento, l’anemia da resistenza, l’alimentazione e gli aspetti fisiologici associati alla disciplina. Inoltre è importante il fatto che abbiamo dedicato alcuni capitoli alle tematiche legate a donne, giovani, master e paratriatleti.
Con l’arrivo della bella stagione ripartono le gare di triathlon. I triatleti si svegliano dal letargo in questo periodo?
Ormai non si entra più in letargo, chi può in inverno cerca condizioni climatiche migliori per allenarsi in bicicletta, mentre per il nuoto e la corsa non ci sono particolari problemi anche nei periodi più freddi dell’anno. Inoltre in inverno ci sono le gare di duathlon. Quindi per l’inizio delle competizioni i professionisti saranno già pronti, ma lo saranno anche i triatleti amatoriali. Anche le attrezzature e le strutture sono cambiate in questi anni, così, in generale, nessuno sportivo va in letargo l’inverno.
Quali sono le accortezze che deve prendere una persona che vuole iniziare a praticare il triathlon per evitare traumi?
Bisogna affrontare tutto con grande umiltà. Si deve partire dall’imparare la tecnica che c’è nelle tre discipline. Non possiamo avere buone performance se corriamo o nuotiamo male, o se non sappiamo fare le curve con la bicicletta, o se non sappiamo affrontare una salita. Quindi umiltà nell’imparare le tre discipline e, poi, è necessario abituarsi alla gara.
Dal triathlon al running, che sta diventando un fenomeno popolare, con oltre 8 milioni di praticanti. Un mondo nel quale lei è conosciutissimo…
Il running è uno sport individuale, facile da praticare. È una disciplina che migliora le condizioni di salute, la pressione, la glicemia, il peso. Il Covid ha interrotto l’attività sportiva di tante persone, però rimane uno sport che crea tanta socialità, ci sono le gare, ci si conosce, si diventa amici, si viaggia. Tornando al triathlon, anch’esso sta diventando un grande movimento di pratica sportiva all’aperto, che porta in giro per l’Italia e per il mondo gli atleti di tutte le età. Il bello del triathlon è che unisce: abbiamo le Grand Final, ad esempio, che mettono insieme i campioni con l’atleta amatoriale ottantenne e con il ragazzino che fa agonistica.
Da tre olimpiadi – Londra, Rio de Janeiro, Tokio – lei è il medico sportivo della squadra italiana di triathlon, ma è con i giochi di Sidney nel 2000 che è iniziata la sua esperienza olimpica. Inoltre alcuni mesi fa la Federazione Internazionale di Medicina dello Sport l’ha nominata membro della Commissione Interfederale. Come giudica questa nuova esperienza?
La Federazione Internazionale di Medicina dello Sport svolge un grande lavoro e per me rappresenta anche un’occasione importante per approfondire quello che sto facendo negli altri ambiti del Comitato Olimpico. La Commissione mi dà la possibilità di confrontarmi con i responsabili medici delle altre federazioni, che stanno affrontando tante tematiche comuni, che servono a fare un passo in avanti nelle regole che vengono stabilite per tutelare la salute degli atleti. Discutere gli stessi problemi permette di andare avanti più velocemente. Penso, ad esempio, alle ricerche fatte con il Comitato Olimpico per stabilire i limiti delle temperature per il nuoto in acque libere. Ma anche gli accordi sui corsi di aggiornamento per i medici di gara sono molto importanti. Ci sono aspetti importanti che a volte non vengono insegnati neanche nelle scuole di specializzazione, ma una cosa è essere un bravo cardiologo, un’altra è essere pronti ad affrontare un’emergenza sul campo di gara. Noi italiani con la Federazione Medico Sportiva diretta da Fabio Pigozzi siamo tra i leader nel mondo.